Ho iniziato a fotografare in Valle Sabbia quando la Lombardia è diventata zona rossa e poi dopo che hanno chiuso tutto.
Della gente di qui non ne ha parlato quasi nessuno.
È una valle piccola.
Di un paese di 500 persone, chi ne parla?
Il testo di Martina Melilli è accompagnato dalle frasi del fotografo Simone Cargnoni raccolte dall’autrice durante le loro lunghe conversazioni mentre preparavano questa storia.
Come si può raccontare per immagini qualcosa di non rappresentabile?
In una situazione di emergenza la prima reazione è di allarme fisico e mentale. Ci si prepara all’attacco o alla fuga e aumenta la capacità di elaborare informazioni.
Alla fine di febbraio ancora a nessuno era chiara la gravità della situazione. Non sembrava prossima, nello spazio e anche nel tempo. Non sembrava nostra. Siamo stati tutti colti alla sprovvista.
La prima reazione è stata d’incredulità e di fuga.
Mai prima la nostra libertà aveva subito delle limitazioni istituzionali così nette, per ragioni in quel momento ancora poco chiare ai più. E quando ti dicono fermati, non ti muovere, tu scappi. È una reazione animale istintiva. Lo spazio per razionalizzare non c’è, lì. Viene dopo.
Prima di questa quarantena io non avevo mai fotografato scene dove non ci fossero persone.
Per me se non c’era la persona, se non le si vedevano gli occhi, non era una fotografia. E invece mi sono reso conto che alcune cose che volevo esprimere richiedevano che le persone non ci fossero.
Forse questa pandemia ha cambiato il mio modo di pormi, di avvicinarmi alle fotografie che faccio.
D’improvviso la morte ci è cascata addosso, gelida, netta, una massa dura, consistente.
La morte, che negli ultimi decenni è stata progressivamente esclusa, rimossa da qualsiasi discorso pubblico e privato, di colpo pugno in pieno viso.
“Nella morte ci riconosciamo umani”, dice Marta Villa, antropologa.
La devozione dei defunti trascende la religione perché caratterizza tutte le culture di tutte le epoche. È una costante. Quando un gruppo umano, per la prima volta, ha deciso di seppellire un proprio caro, è nata la religione, la spiritualità. È una pratica che parte dall’uomo di Neanderthal e non si è mai interrotta, in alcuna società e in alcun periodo. Solo durante le pestilenze. Che per questo sconvolgono dalle fondamenta, perché interrompono una delle cose che, da millenni, ci rende quello che siamo: uomini.
Nella pandemia si muore soli. Forse c’è un operatore sanitario. Nessun ultimo saluto, o carezza. Nessuna ultima parola. Commiato, riparazione, riconciliazione. Lutto mutilato, sospeso. Non si fanno i funerali. Nessun rito di passaggio, gestione collettiva del dolore, azioni rituali che aiutano ad accettare, ad addomesticare la morte. Che resta non addomesticata. E resta il senso di colpa e la disperazione, un limbo. Sospeso.
Se con le prime risposte fisiche e mentali, per gravità, intensità o durata la situazione non risulta gestibile, si crea uno stato di shock, stordimento e confusione. Negazione. Dissociazione. Rabbia. Tristezza. Iperattività. Le reazioni sono molteplici e diversificate.
Impossibile definire chiaramente il rischio, il pericolo. Bombardati da una marea d’informazioni, di numeri, dati, procedure, allarmismi. Non ci sono filtri protettivi contro questa marea che esce da ogni schermo, da ogni canale.
E non si riesce a vedere, e a vederlo. Il virus, e come si muove, come si trasmette, come si sposta. Caccia all’untore. Il paziente zero, il paziente duecentoventunmila. Lui, il virus, si sposta, noi no, fermi, a casa. In attesa. Aspettiamo che se ne vada, o che arrivi e passi senza far danno, che non si prenda noi, nessuno a noi caro, vicino, prossimo. Il prossimo.
Ho provato prima a seguire cosa succedeva qui nel paese, la cronaca, per capire cosa stesse succedendo qui intorno.
Sono entrato nelle RSA, sono stato sulle ambulanze, con la Protezione Civile. Poi ho contattato il prete, sapevo che stava organizzando la via crucis. Ho parlato con le persone, ho visto il paesaggio mutare.
Ho iniziato a girare un po’ la valle, fino all’industria, alle sanificazioni, ai posti di blocco.
Quando in paese c’è stata la prima morte sono andato a chiedere di poter fotografare il funerale. La figlia della defunta non poteva andare in Chiesa. Le ho detto chiaramente che sono ateo, ma che trovavo giusto la chiesa fosse addobbata a festa per come possibile, mi sono offerto di portare dei fiori e scattare una foto per lei che non poteva esserci.
In quel momento il paese ha capito la gravità della situazione, non tanto perché è morto qualcuno, quanto perché al funerale non poteva esserci nessuno. E qui abitualmente le chiese ai funerali sono piene, si conoscono tutti.
Cala il silenzio. Stare fermi.
Si ridefinisce il concetto di movimento e di spazio. E di rumore, paesaggio sonoro che ci circonda. Di luogo. Vedi poche persone. Vedi la tua casa. Ne noti dettagli cui prima non avevi mai prestato attenzione. Scansioni angoli, centimetri. Scopri nuovi mondi nel micromondo che abitualmente ti ospita. Ti guardi allo specchio e scopri te. Ti senti. Perché non hai alternativa, perché è anche bello accorgersi che in una pausa dal moto costante e dal rumore la tua testa riesce a notare cose che prima non era possibile annoverare tra i mille mila stimoli da processare al secondo. Costantemente. La finestra si fa filtro del mondo, dal mondo, schermo su cui è proiettato, il fuori. L’altrove. L’al-di-là. Un’inquadratura fissa all’interno della quale accadono piccole cose, cambiamenti; la percezione che non lì, ma oltre, la vita continua, il mondo c’è ancora, e chissà com’è.
Un’apertura sul mondo chiuso fuori. E dentro cosa resta? Dentro cosa c’è?
Dopo le iniziali reazioni fisiologiche ed emotive inizia a farsi largo l’impatto emotivo del trauma, che colpisce persone diverse in tempi diversi. In questa fase quello che si manifesta sono ipervigilanza, incubi, pensieri e immagini intrusive, sintomi dissociativi, sintomi di iperattivazione ed estrema stanchezza, fisica e mentale. E l’evitare i pensieri che riportano all’evento, al problema.
Non si respira. Il virus ti fa annegare in te stesso, ti toglie l’aria.
Non si respira perché la mascherina toglie l’aria. Perché se non hai la mascherina trattieni il respiro tu, o lo trattieni e basta, in apnea senza accorgertene, in uno stato d’angoscia costante. Incertezza. Hai tempo ma la sostanza di questo tempo è diversa, altra, alterata. Densa. La convenzione nel calcolare la durata si fa sottile, inutile, inconsistente. Non vale più.
Assenza e solitudine si riempiono di pensieri, di sensazioni, di attività impreviste, per farle passare le giornate, per scandire le ore. Settimane. E sono mesi.
Era il giorno di Pasqua ed ero stato a fare una passeggiata in una zona che si chiama la Valle dei Morti, che è dove andavano a morire gli appestati del paese nel 1630. Allora il paese perse 1000 abitanti su 1350. Tornando da questa valle ho sentito odore di bruciato – è il tipico periodo in cui si bruciano le sterpaglie per risistemare gli orti.
Arrivato in questo posto dove stavano bruciando ho fatto un paio di foto. Non avevo assolutamente visto quella figura. Io vedevo solo salire del fumo. Ma una volta messe nel computer, era lì, esattamente così.
Qui si esce dalla famiglia molto presto. Tanti vanno fuori casa già a 15 anni perché fanno le superiori in città invece che in paese.
C’è un tessuto sociale che può essere forte ma in qualche modo si è anche tutti un po’ da soli.
Fare queste fotografie mi ha mandato in crisi.
In questo caso quello che vedi e che senti è molto più forte di quello che riesci a cogliere in uno scatto.
Come fare?
Perché non si tratta di uno scontro di piazza, una rivoluzione, dove nelle fotografie riesci a immortalare la tensione, la violenza, la disperazione.
Qui non è evidente.
Come si può rappresentare cosa voglia dire per mesi non potersi avvicinare fisicamente ai propri figli, alla propria moglie, pur vivendoci assieme, nonostante tutte le precauzioni possibili, per proteggerli, perché fai un lavoro a contatto diretto col virus?
La fase di coping che segue l’impatto emotivo del trauma può essere definita anche come strategia di adattamento, convivenza.
Pandemia dice che il virus è arrivato ad ogni latitudine e ovunque nel mondo sono state attivate misure di contenimento simili, più o meno severe. Ubiquo e non democratico. Le situazioni sono state, sono, tutte diverse. Le condizioni di base della vita di ciascun individuo esasperate in maniera imprevedibile.
Angoscia. Disagio. Paura. Fatica. La solitudine, protratta, dilatata, sistemica. Organica. E in questa cosa ognuno di noi si è trovato solo, sola, non nel senso stretto di avere, sentire la necessità o la voglia di parlare con qualcuno, ma più nel constatare che ognuno con questa cosa deve farci i conti da sé soltanto. Fare i conti, tirare le somme. Trovare il modo di convivere con la situazione, di sopravvivere, sopravviverla. Ognuno, ognuna a modo suo.
È nella variazione improvvisa da una precedente condizione che la percezione si fa più fine, più precisa, dettagliata. Quando cambia di colpo la luce. Quando c’è una folata di profumo. Quando cala il silenzio. Quando quello che avevi dato per certo viene meno. Affetti, averi, certezze.
Il corpo impara a stare fermo. A non toccare, non farsi toccare. Il corpo degli esseri umani possiede un’incredibile capacità d’adattamento. Qual è il prezzo?
E la mente?
Loro fanno questo lavoro per tutto il giorno.
E poi la sera non tornano a casa. Sono in missione, tornano nella base provvisoria.
Stanno con la stessa gente con cui hanno lavorato per tutto il giorno, e il giorno dopo ricomincia uguale.
Uno del loro gruppo mi ha chiesto di stampargli le fotografie dei figli perché partendo di fretta da Napoli non ha avuto modo di portarle con sé.
L’ultima fase di gestione del trauma è quella dell’accettazione.
Prima il silenzio, in cui sentire cose che non riuscivamo più a sentire.
E poi è vero che il cielo è limpido come mai prima, che si vedono montagne lontanissime con definizione quasi macroscopica dei dettagli. Estrema chiarezza. O non le avevamo mai guardate con attenzione, prima? Non avevamo lasciato quello spazio, quel tempo?
E ripartire da questa chiarezza?
La “fase due” è iniziata da una decina di giorni e sembra meno definita della uno, più vaga, sfocata. Altrettanto straniante. Le regole sono poco chiare, e ormai delle regole le avevamo imparate. Ma poi cosa succede?
È ancora attesa, ma esattamente di cosa? Cos’è la vita di prima, qual è?
Siamo colti alla sprovvista.
Me ne sono andato da qui fuggendo perché era un posto che mi opprimeva e in cui non avrei mai potuto sviluppare il lavoro che sto facendo. Ma ora, avendoci vissuto la pandemia, mi sono reso conto ancora di più di quanto questa valle mi abbia formato senza che io me ne rendessi conto.
Martina Melilli (1987) è un’artista audio-visiva, regista e autrice.
I suoi cortometraggi sono stati selezionati in diversi festival nazionali e internazionali e i suoi lavori esposti e proiettati al PAC di Milano, al MART di Rovereto, Spazio Labò di Bologna, Ekrani i Artit festival, Scutari (Albania), Vista d’Arte (Lisbona). Ha vinto l’edizione 2017 di Artevisione con il film MUM, I’M SORRY, poi acquisito dal Museo del Novecento (Milano). My home, in Libya è il suo primo documentario di creazione, che ha avuto la sua anteprima mondiale al Festival di Locarno nel 2018, vincendo poi diversi premi e menzioni speciali. Collabora con la rivista Playboy Italia con la rubrica CORPO A CORPO | Bodily Conversations.
Simone Cargnoni è un fotografo bresciano.
Dal 2014 fa parte di Jump Cut, realtà che si occupa di cinema e fotografia, con sede a Trento.
Nei suoi lavori predilige l’approccio documentaristico.
Ha all’attivo due libri fotografici: “Marlene Kuntz | 3 di 3” accluso all’edizione deluxe dell’album “Nella tua luce” (Sony 2014) e “Colapesce & Infedele Orchestra” edito da 42Records e Jump Cut (2018).
Ha pubblicato con: Rolling Stone, Rockerilla, XL di Repubblica, L’Espresso, La Repubblica, Corriere della Sera, Internazionale, Stern.
Un ringraziamento speciale a
Fam. Togni-Ferliga, Alberto Manassi, Onoranze Funebri Eridio, Fondazione Angelo Passerini, Marcella Bacchetti, fam. Bertelli, Gruppo Volontari del Garda, Luca Cavallera, fam. Bettinelli-Micheli, Maura Marelli, Gruppo Volontari Antincendio Boschivo e Protezione Civile Treviso Bresciano, don Paolo Morbio, fam. Pozzi-Motelli, fam. Stefani-Tiboni, Dnd handles – Martinelli, fam. Mazzoleni-Antonini, Comando Provinciale Carabinieri Idro, Alfredo Cadenelli, Roberta Fanton, Giovanni Coccoli, Fondazione Richiedei, 7mo Reggimento Difesa CBRN E.I., Alvaro Busi, CPF80, Gigi Boracia, Fondazione Sospiro